Emma “Scienza” Prévot, a 25 anni costruisce gemelli digitali per capire meglio le malattie

La chiamano “Scienza”. È il soprannome che le ha dato la sorella. A 25 anni, Emma Prévot ha appena ricevuto il premio Super Nova 2025, assegnato al miglior talento italiano under 25 tra gli 111 studenti selezionati nella lista Nova. Studia a Oxford, dove sta svolgendo un dottorato in statistica e sviluppa modelli di intelligenza artificiale applicati alla medicina.
Una giovane promessa che ha seguito la curiosità accesa da un libro, La fisica del diavolo, la passione per la matematica trasmessa da una professoressa al liceo, e una domanda ancora aperta: “Perché il mio amato nonno, che aveva sconfitto due tumori, ha perso se stesso e in due anni è morto di Alzheimer?”
Emma ha una laurea triennale in fisica all’University College London: è stata premiata come miglior studentessa del corso per due anni consecutivi. Il secondo anno si è classificata come migliore allieva dell’intera facoltà di ingegneria. «Non sono una secchiona, ma c’è una cosa che non sopporto: ed è perdere tempo».
Oggi lavora su modelli di AI applicati alle malattie neurodegenerative. La intervisto mentre si trova a Singapore, sono le 22. È appena uscita dalla BayesComp 2025, conferenza internazionale sul machine learning bayesiano.
«Ho presentato un algoritmo di machine learning causale, specifico per riconoscere i nessi causali tra le varie variabili e capace di simulare l’effetto di un trattamento medico nel tempo».
Il suo poster si intitola “Extending Bayesian Causal Forests for Longitudinal Data Analysis: A Case Study in Multiple Sclerosis”. «Pensiamo ai trial clinici: io ricevo un farmaco, un’altra persona invece riceve un placebo o un trattamento diverso, magari di un’azienda concorrente. Per capire davvero qual è stato l’effetto della medicina su di me, servirebbe un mio doppio che, nello stesso momento, con le mie stesse caratteristiche biologiche, non ha ricevuto il farmaco. Ecco, io provo a costruire una versione ridotta di questo “gemello digitale”. Non è una replica completa del corpo umano ma ha le variabili che contano in relazione a quel trattamento: è come se potessi stimare, per esempio, quale sarebbe stata la mia pressione sanguigna in un dato giorno se non avessi preso quella medicina. Esistono già modelli che fanno questo tipo di analisi, ma io ne ho modificato uno affinché funzionasse su dataset longitudinali, cioè su dati raccolti nel tempo. Il mio modello riesce a fare previsioni a lungo termine: per esempio, quale sarebbe stata la pressione di Emma dopo un anno, o dopo tre visite, se non avesse mai assunto quel farmaco?».
Nei prossimi giorni volerà in Australia, a Brisbane, per l’OHBM 2025, l’annuale conferenza della Organization for Human Brain Mapping. Qui presenterà un secondo lavoro. Titolo: “BARTharm: MRI Harmonization Using Image Quality Metrics and Bayesian Non-parametric”. Un progetto che affronta una sfida concreta del neuroimaging. Qui presenterà un algoritmo per affrontare uno dei limiti strutturali di questo campo: la difficoltà nel confrontare immagini cerebrali acquisite con macchinari diversi.
«Immagina due risonanze: una fatta a Crema con uno scanner acquistato dieci anni fa, l’altra a Londra con un macchinario di ultima generazione. Anche se i due pazienti hanno la stessa patologia, ci saranno differenze nelle immagini che non dipendono dal cervello, ma dallo scanner. È un problema noto nel neuroimaging, e per questo si applicano tecniche di armonizzazione: servono ad annullare questi bias strumentali».
Ma la novità del suo approccio è che riesce a farlo anche in assenza di un dato cruciale: l’identificativo dello scanner. «Spesso nei dataset questo ID non è disponibile. Il mio algoritmo utilizza altri tipi di informazioni e riesce ad armonizzare le immagini senza conoscere l’identificativo dello scanner. In questo modo possiamo recuperare anche dati che, finora, venivano esclusi dagli studi»
Mamma italiana, papà francese, nata e cresciuta a Crema, in provincia di Cremona. Liceo scientifico delle scienze applicate. Si batte per poter fare il quarto anno all’estero, ma i professori invitano i suoi genitori a essere prudenti: rischia di non concludere la maturità con il massimo dei voti. Niente anno fuori. «Mio padre mi disse: "finisci il liceo qui, poi vai dove vuoi”». Nell’autunno della quinta superiore comincia a guardare le università straniere. È in ritardo per fare domanda a Oxford e Cambridge, ma non per altre mete. Riceve un’offerta da Manchester, due giorni dopo arriva anche la lettera da UCL: fisica a Londra.
«Vivevo in una stanza minuscola, ma il mondo che mi si è aperto nella City era immenso. Mi sono specializzata in fisica medica. Ho sempre guardato con grande interesse il corpo umano, inteso come sistema fisico. Il cervello come un circuito, il sangue come un fluido».
Discute una tesi della triennale su un progetto di intelligenza artificiale. Poi decide di capire le basi del machine learning, con un master e costruisce la base tecnica per quello che diventerà il cuore del suo lavoro. Infine arriva a Oxford per il dottorato in statistica.
«Al liceo avevo una professoressa che mi ha fatto innamorare della matematica, mi ha spinto anche a fare le Olimpiadi a Cesenatico. E spesso ero l’unica ragazza nella stanza. Quella a cui a volte chiedevano: dov’è il bagno?».
Durante il quinto anno scopre la fisica moderna.
«Fisica quantistica e astrofisica: tornavo a casa e cercavo libri da leggere. Così ho trovato La fisica del diavolo di James Al-Khalili, un libro in cui ogni capitolo racconta un paradosso della fisica. A quel punto ho capito che avrei voluto soltanto seguire quegli studi. La cosa che mi appassiona di più della fisica è tutto ciò che non capisco, la fisica quantistica, i paradossi, la materia che si comporta in modo strano e non intuitivo: è da lì che viene la mia sete di comprensione. Uno dei libri più belli in assoluto che ho letto almeno dieci volte è L’ordine del tempo di Carlo Rovelli».
Lo scorso anno Emma ha ricevuto al Quirinale il premio Giovane Italia 2024, promosso dal Cnr per valorizzare i talenti under 35 di qualsiasi ambito. «Devo tutto all’educazione che ho ricevuto in famiglia, che ha sempre riconosciuto il mio impegno quando facevo qualcosa di bello. I miei mi hanno sempre spronata, mi hanno sempre detto ‘sì vai’, ‘sì fai’, ‘sì brava riconosciamo il tuo potenziale”, investi in te stessa, metti il 100% e noi investiamo su di te. Ancora oggi i miei mi chiedono di spiegare loro esattamente cosa faccio».
Cosa hai imparato che può servire a tutti noi?
«Il mio mantra è: se non hai una soluzione non hai un problema. Nel senso in cui tante volte mi lamento perché non mi funziona il codice, non funziona l’algoritmo, perdo un treno, per qualsiasi cosa. Ma se non c’è una soluzione, non hai un problema… te lo devi far scivolare addosso.
Questo mantra mi aiuta a dire “basta, cambia”: non ha senso andare avanti a sbattere la testa su una cosa per cui non c’è una soluzione. E poi magari la soluzione arriva domani. Poi a livello scientifico ho capito che qualsiasi cosa ha una spiegazione facile. Quindi se non lo sai spiegare bene, non l’hai capito».
Tornerai in Italia?
«È il Paese più bello del mondo. Sì, magari in pensione…».
La Repubblica